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Chiesa e concubinato

Per molto tempo ci si è arrovellati circa un’eventuale ammissione del concubinato da parte della chiesa. Il rebus nasceva dal canone 17 del primo concilio di Toledo (anno 400: all’epoca i concili provinciali dettavano precetti validi non solo nell’ambito geografico di pertinenza), che sembrava ammettere il concubinato non escludendo dalla comunione dei fedeli chi avesse un’unica concubina. Ma era una strana concubina, perché si richiedeva che fosse tenuta con affectio maritalis. Nel diritto romano, classista come pochi, c’era almeno una decina di categorie di donne (le più diverse: dalle “sceniche” alle liberte alle “obscuro loco natae”, cioè – in generale – le donne del basso proletariato) che non si potevano sposare, ma solo tenere come concubine.
Il nascente diritto canonico non era ancora così solido da potersi imporre sul diritto romano, qualificando come matrimonio un’unione da questo vietata. Ma neppure poteva scomunicare i tanti (ed erano davvero tanti) che – conformandosi ai precetti cristiani – sceglievano di convivere con una sola donna tenendola “pro uxore”, come moglie. Di qui la soluzione del canone 17: consentire il concubinato esclusivamente nel caso di concubina unica “pro uxore habita”. Una specie di unione di fatto ante litteram…
Dunque, la chiesa ha dovuto e saputo – nel passato – adattarsi alle leggi dello Stato per venire incontro alla situazione di fatto dei suoi fedeli. Oggi la situazione sembra essersi capovolta. Lo Stato (quanto meno la parte di esso che vorrebbe intervenire) in tema di unioni di fatto cerca di trovare soluzioni normative di compromesso, che non dispiacciano troppo alla chiesa. Cerca lui di adattarsi. Ma non riesce a trovare la quadra…
Gian Carlo Caselli, Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2015