Archivi categoria: Frammenti

La stupidità


Per Bonhoeffer la stupidità è «un nemico più pericoloso della malvagità» perché, mentre contro il male è possibile protestare e opporsi con la forza, contro di essa non si hanno difese, le motivazioni non servono a niente, dato che lo stupido è tale esattamente perché si rifiuta a priori di prendere in considerazione argomenti che contraddicono le sue convinzioni.
Lo stupido, a differenza del malvagio, è soddisfatto di sé. Tentare di persuaderlo con argomentazioni è insensato, può essere anche pericoloso. Da qui un’acquisizione essenziale: la stupidità riguarda «non l’intelletto, ma l’umanità di una persona». Ci sono uomini molto dotati intellettualmente che sono stupidi e altri intellettualmente inferiori che non lo sono affatto…
Sempre secondo Bonhoeffer, la stupidità è un problema anzitutto politico: a suo avviso infatti «qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia» (oggi io tolgo religiosa e aggiungo tecnico-scientifica) «provoca l’istupidimento di una gran parte degli uomini».
Intravedeva una specie di legge socio-psicologica: «La potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri». E ancora: «Sotto la schiacciante impressione prodotta dall’ostentazione di potenza, l’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni».
Vito Mancuso, La Stampa, 22 maggio 2023

Dio e la lingua materna


Che cos’è la lingua materna? È la funzione che ci introduce nel linguaggio umano, soprattutto (ma non solo) nella fase iniziale, quando si è ancora nel grembo materno. Quando sentiamo un bambino che piange, questo è un linguaggio umano, a tutti comprensibile
La mamma è esperta di questa lingua materna. Questa infatti è semplicemente l’altra faccia della gestazione, l’altra funzione del grembo: far nascere un essere umano, e quindi abilitarlo a entrare nel linguaggio umano. 
Quando noi credenti diciamo che la parola di Dio non si risolve nel corpo testuale degli scritti e allo stesso tempo senza questo corpus evapora, si dissolve, si corrompe, parliamo della lingua materna. Parliamo di quella gestazione, della lingua di Dio come lingua materna. Il linguaggio di Dio presiede alla gestazione delle Scritture del corpus, così che quando lo interroghiamo è capace di risponderci nel linguaggio di Dio. Essa non sarà mai codificabile come si fa con le lingue, eppure sarà intelligibile, perché Dio ci ha resi capaci di intendere il linguaggio di Dio nel corpo, nel grembo di un linguaggio umano. E ogni volta che proviamo a farlo, succede una rivelazione inaspettata, perché miriamo alla lingua di Dio e non solo al significato dei vocaboli nei quali è scritta. Questa però non è neanche un’esperienza mistica, perché la lingua materna opera attraverso la relazione con il bambino (voci, carezze, nutrimento…).
La parola di Dio non è una lingua, ma un linguaggio e la Bibbia è il grembo che ci consente di ascoltare questo linguaggio. Se la Bibbia – non il Catechismo, quello viene dopo, come quando si va a scuola – ridiventasse la nostra lingua materna, i bambini saprebbero ascoltare il linguaggio di Dio, non se lo dimenticherebbero più e questo li accompagnerebbe per tutta la vita, proprio come la lingua materna che ci ha consentito di nascere come umani.
Pierangelo Sequeri
Fonte: https://www.queriniana.it/blog/il-grembo-della-scrittura-la-lingua-materna-di-dio-521

Donne e Chiesa

La chiesa cattolica non ha aiutato in genere le persone, le donne in particolare, a sviluppare una fede adulta, le ha tenute, lo abbiamo detto molte volte, in condizione puerile, e così nel XXI secolo Gesù sta finendo con babbo natale e le barbie tra i giocattoli dell’infanzia.
Ma le donne hanno reagito, hanno sentito che se c’era un Dio non poteva essere quello che voleva il dolore del figlio e nostro, e hanno riempito di baci e di carezze le statue, e così hanno salvato Dio.
Gli angeli sono diventati le foto dei loro troppi figli morti piccoli in un mondo senza fotografie per i ricordini; e durante le liturgie latine e controriformiste loro parlavano con i loro bambini, con la madonna e i santi, che erano, almeno loro, buoni e sempre dalla loro parte.
La loro povertà e ignoranza le hanno protette da una teologia non biblica che aveva inventato un Dio troppo distante e strano.
Luigino Bruni, Avvenire, 7 maggio 2023
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Don Milani e la guerra

Eravamo come sempre insieme nella nostra scuola di Barbiana quando un amico ci portò il ritaglio di un giornale. Si presentava come un comunicato dei cappellani militari in congedo della regione Toscana.
Leggendolo ci ha colpito la seguente frase: “Consideriamo un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta ‘obiezione di coscienza’ che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”.
Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella mia duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto, tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale.
Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita. Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa.
Abbiamo dunque preso i nostri libri di storia (testi scolastici non monografie) e siamo riandati cento anni di storia italiana in cerca di una guerra giusta. D’una guerra che fosse in regola con l’articolo 11 della Costituzione. Non è colpa nostra se non l’abbiamo trovata.
Don Lorenzo Milani
Tratto da: L’obbedianza non è più una virtù
Vedi: https://www.gruppifamiglia.it/anno2022/112_novembre_2022.htm#17

Quale cibo per il futuro?

Per produrre un chilogrammo di carne servono circa 100 metri quadrati di terreno coltivato, mentre per produrre un chilogrammo di frutta o di verdura bastano dai 3 ai 9 metri quadrati. Per produrre un chilogrammo di carne servono circa 15.000 litri d’acqua, mentre per produrre un chilogrammo di frutta o di verdura servono dai 100 ai 600 litri d’acqua.
Ancora: per produrre un chilogrammo di carne bovina vengono emesse in atmosfera quantità di anidride carbonica – gas serra – sino a 500 volte maggiori di quelle emesse per un’analoga quantità di frutta e verdura, senza neppure considerare il beneficio della cattura della anidride carbonica da parte dei vegetali per fotosintesi.
C’è poi da considerare l’impatto ambientale prodotto dalle deiezioni animali.
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25 aprile: le bandiere che mancano


Partiamo dalle polemiche (fuori tempo, eppure ricorrenti perché parlano alla pancia della «curva sud»): «Le piazze del 25 aprile sono piazze rosse». Inutile negarlo, è vero. Si vedono quasi solo bandiere rosse. E questo è storicamente fuorviante e sbagliato.
Ma l’errore non è la presenza delle bandiere rosse: l’errore è l’assenza di tutte le altre, di quelle che c’erano alla fine degli Anni 40 e che nell’atmosfera rovente della Guerra fredda hanno cominciato a farsi via via più rare sino a scomparire.
Siccome in democrazia l’egemonia ideologica degli uni implica l’abdicazione da parte degli altri, è però altrettanto sbagliato ricorrere alle categorie interpretative della prevaricazione e del monopolio intellettuale. Cerchiamo piuttosto di tornare al tema.
La lotta di liberazione è un’esperienza plurale nata dall’incontro tra l’antifascismo spontaneo ed esistenziale di chi nel corso della guerra ha vissuto le distanze tra le promesse del regime e la realtà, e l’antifascismo politico maturato nella clandestinità da piccoli gruppi di militanti e intellettuali: in questo senso, comprende al suo interno componenti cattoliche, monarchiche, liberali, comuniste, socialiste, azioniste, ognuna con le sue sfumature e le sue progettualità.
L’antifascismo spontaneo non ha (né poteva avere) connotazioni partitiche: nasce e si sviluppa tra dubbi, incertezze, improvvisazioni e solo nel corso dei venti mesi di lotta approda a riferimenti più solidi…
Ben altrimenti articolata la scelta dell’antifascismo politico, patrimonio di una minoranza tanto esigua quanto significativa, destinata ad animare l’esperienza dei Comitati di liberazione nazionale e a porsi come riferimento del movimento…
Per qualcun altro (in particolare ufficiali del Regio Esercito sorpresi dall’armistizio dell’8 settembre al centro-nord) si tratta di una scelta patriottica…
Per altri ancora, la motivazione è la lotta di classe: cacciare i tedeschi, sconfiggere i fascisti, e soprattutto abbattere i «padroni»…
La forza del movimento di liberazione sta in questa pluralità di accenti e di prospettive, che Claudio Pavone ha sintetizzato nella formula ormai classica delle tre guerre che si intrecciano tra loro: guerra patriottica, guerra civile e guerra di classe.
Gianni Oliva, La Stampa, supplemento del 25 aprile 2023

Una cultura e religione dolorifica

Cosa resterebbe delle nostre libertà se dovessimo rinunciare alla libertà dal dolore? Asserviti alla servitù del dolore ferale, estremo, saremmo ancora davvero capaci di godere di ogni altra libertà? Sarebbe bene ricordarci che questa rivoluzione non è stata solo chimica, medica, ma ha combattuto, e forse non ha ancora finito di farlo, contro la millenaria cultura, no, religione del dolore.
Parlando di noi, di qui, la dottrina cristiana si è aberrata nel culto del dolore. Il dolore come espiazione, come redenzione, come santificazione, imago Christi, il dolore sofferto e il dolore inferto, la tortura come purificazione, la morte atroce come santo castigo.
Eppure i dottrinari del dolore avrebbero dovuto sapere la ragione di quella spugna imbevuta. d’aceto offerta al Cristo nel suo supplizio. Non era aceto, non un gesto di disprezzo, ma vino aggiunto di trementina, che sì lo acidificava, ma funzionava come rudimentale anestetico, un gesto di pietà consueto persino nell’impero che aveva disseminato di croci ius et lex; consuetudine che è rimasta nella Roma papale, quando si bruciavano gli eretici davanti a Sant’Angelo, e i sagrestani spendevano quattro baiocchi per dare al condannato un bicchiere di vino che gli osti romani avvantaggiavano di trementina.
Sarebbe bene ricordare che per buona metà del XIX secolo i medici d’Occidente, credenti e miscredenti, hanno dibattuto sulla liceità e l’opportunità di anestetizzare il paziente durante la chirurgia.
Sarebbe anche bene ricordare che durante il primo conflitto mondiale le gerarchie militari intendevano proibire la diffusione dell’aspirina tra la truppa combattente, perché ritenevano che il dolore era un forte incentivo all’aggressività.
Sarebbe bene ricordarci che il dolore c’è sempre, è ovunque, disponibile per tutti, anche per me; il dolore vero, il dolore del Fuoco di Sant’Antonio e anche peggio, anche molto peggio, e ancora c’è chi oppone la sua accettazione al lenimento per conto di un’etica della sofferenza e del diniego alla palliazione che permane negli anfratti di quella religione della perversione.
E val anche la pena di ricordare che ora, in questo momento, dall’Ucraina al Myanmar, ovunque e forse a un passo di casa nostra o poco più in là, c’è chi si adopera per causare il massimo dolore come il più ovvio ed efficace strumento di dominio.
Maurizio Maggiani, La Stampa, 17 aprile 2023

Verso una famiglia di single

A dominare lo scenario della crisi della famiglia è l’affermarsi sempre più indiscusso – già in Italia e ancora più in altri paesi europei – della figura del single, di una persona, cioè, che è senz’altro disposta ad avere rapporti con un partner, ma tende sempre di più a evitare un legame stabile e definitivo.
Convivenze, divorzi, famiglie unipersonali, hanno come protagonista il single. Analogamente, si è restii a fare figli, perché ad essi non si può applicare la logica del «stiamo insieme finché stiamo bene insieme». Padri e madri lo si è per sempre.
Il punto è che per il single la libertà si identifica con l’autonomia, con la possibilità di operare senza essere condizionati da vincoli di sorta. E se noi non rimettiamo in discussione questa idea, il futuro sarà sempre più dominato dal declino della famiglia come comunità. Bisogna riscoprire, accanto a questo concetto di libertà, quello per cui essa non è solo la possibilità di fare e di avere quello che si desidera senza incontrare ostacoli (non a caso di questa libertà si dice che «finisce dove comincia quella dell’altro»: l’ostacolo invalicabile è l’altro), ma la capacità di scegliere qualcosa o qualcuno per il valore che vi si trova e di impegnarsi nei suoi confronti con tutto il proprio essere.
In questa prospettiva, veramente libero è alla fine solo chi sa scoprire il senso della propria esistenza in un ideale o in una persona a cui rimane fedele malgrado tutte le difficoltà. Questo non esclude l’autonomia, ma le dà un orientamento e una regola. Poter fare o avere senza ostacoli ciò che si desidera non è ancora avere compreso che cosa davvero desiderare.
Giuseppe Savagnone
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Vedi anche GF113: Le famiglie di oggi

 

Liberi tutti = Singoli tutti?



Dall’intervista di Alberto Riccadonna a Stefano Lepri, La Voce e il tempo, domenica 2 aprile 2023
C’è chi dice che la grande finanza internazionale abbia ormai vinto sulla politica. Crede sia vero?
Purtroppo la politica conta meno di un tempo, ma può riscattarsi. Le grandi slide che abbiamo di fronte richiedono una superiore capacita di iniziativa e di lotta da parte delle forze politiche, che possono ritrovarsi su obiettivi comuni. Penso soprattutto all’esigenza di valorizzare la famiglia, i corpi intermedi e ogni iniziativa economica improntata alla condivisione tra i lavoratori e il capitale.
C’è un disegno di chi ci vorrebbe tutti individui, soli e quindi costretti a vivere frenetica- mente per lavorare e consumare. Serve invece un di più di comunità e fraternità. Mi ha colpito molto un inserto de La Stampa di qualche mese fa, dal titolo: Singoli tutti, in cui si elogiava uno stile di vita improntato alle fluidità dei rapporti affettivi e al cambio di lavoro, quasi che la realizzazione di ciascuno si possa trovare nella molteplicità, potenzialmente illimitata, di esperienze a termine. Non a caso l’editorialista ricordava come questo stile di vita piaccia molto all’economia. Perché in questo modo possono renderci tutti prouttori e fruitori seriali, una volta rinsecchite tutte le forme di relazione e di mutuo aiuto stabili che non passano dallo scambio economico. Combattere questo modello, che sta diventando dominante è, per me, una delle sfide più importanti della buona politica

Il silenzio del venerdì santo

Tutto il racconto della Passione è solo un tentativo di dire parole attorno a un grande silenzio. Infatti è il silenzio il vero protagonista di questo racconto. La Croce è l’esperienza di uno sterminato silenzio. È il silenzio del cielo, ma anche il silenzio degli amici. Neppure Maria parla in questo Vangelo. La Croce è l’esperienza di immergersi nel silenzio di Dio.
Da questa prospettiva scomoda però si intravede tutta la logica di Dio. Egli per salvarci, sceglie l’ultimo posto. È l’ultimo perché nessuno possa oltrepassarlo. Nessuno sarà più solo dopo questa morte perché il Figlio di Dio ha scelto di mettersi nell’ultima solitudine, quella che ci spaventa tutti. Si è collocato lì perché nessuno possa più dirsi solo e abbandonato. Egli si è fatto abbandonato perché nessuno più lo sia. Egli si è fatto sconfitto perché nessuno si vergogni più delle proprie sconfitte.
Dopo che Gesù è morto in quel modo non c’è più nulla che possa spaventarci perché ormai sappiamo che in ogni cosa, anche la più terribile, Lui è lì, confitto, a fare da muro alla nostra disperazione. Tutti prendono da Lui. Tutti. Persino i vestiti gli vengono tolti. È spogliato di tutto.
Ma Suo Padre si rende visibile nella tenerezza di due discepoli dell’ultima ora: Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo. “Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto. Là dunque deposero Gesù, a motivo della Preparazione dei Giudei, poiché quel sepolcro era vicino”.
La misericordia sul corpo di un morto è paradossalmente il primo bagliore della Pasqua. Ma nessuno se ne accorge.
Luigi Maria Epicoco