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La religione vicaria


Sono passati 15 giorni dai funerali di Silvio Berlusconi e le polemiche nate intorno a questo evento sono archiviate. Per questo vorrei tornare su un momento di quel funerale, più precisamente sugli applausi che hanno fatto seguito all’omelia dell’arcivescovo di Milano monsignor Mario Delphini. Quegli applausi hanno sottolineato il gradimento dei presenti alle parole dell’arcivescovo.
A mio avviso, è stato un classico esempio di “religione vicaria”.
Scrive Luigi Berzano (*): “la religione vicaria è quella praticata da una minoranza attiva, p.e. di cattolici, ma per conto di un numero molto più grande di altri che, almeno implicitamente, capiscono, condividono e approvano ciò che la minoranza sta facendo, ma non vi partecipano regolarmente.
Questi cattolici non partecipano alla loro chiesa nella vita quotidiana ma in certi momenti pretendono di riferirsi. Questa è l’essenza della religione vicaria.
Quando succede un episodio tragico o si celebrano grandi eventi collettivi anche gli individui della religione vicaria chiedono di partecipare al sistema rituale della loro religione storica, riferendosi ai responsabili locali per celebrare in chiesa i loro eventi…
Il fatto che tale relazione non solo permanga ma che sia accettata dalle due parti – sia dai responsabili delle chiese sia dai fedeli della religione vicaria – sta formando un modello religioso nel quale questi ultimi sanno a chi rivolgersi nelle situazioni estreme e i primi sanno sempre più corrispondere a tale aspettative e richieste, assolvendo in tal modo alle loro funzioni tradizionali.
Quando però tale relazione positiva non si verifica le relazioni dei cattolici della religione vicaria sono irritate perché considerano normale che il clero sia delegato a vivere vicariamente le speranze e anche i valori che la maggioranza della popolazione non segue più nella vita ordinaria”.
Franco Rosada
(*) Tratto da: Senza più domenica. Viaggio nella spiritualità secolarizzata. Effatà Editrice Cantalupa (TO) 2023, p. 45 

L’indifferenza

Fra tutti i problemi che mi sono trovato a esaminare e combattere negli anni di lavoro, sicuramente l’indifferenza ha rappresentato lo scoglio più insidioso.
In una omelia ascoltata tanti anni fa dal mio parroco, amico d’infanzia e che ora è Vescovo nella diocesi di Pescia, ricordo di aver sentito una breve, ma significativa esegesi sulla espressione di Giovanni (1,29) “Ecco Colui che toglie (il tollit latino però significa più propriamente che prende su di se) il peccato del mondo”. Nella preghiera proposta dalla Liturgia prima della Comunione, così ci diceva il mio parroco, si invoca certo il perdono sui tanti peccati che si commettono nel mondo (il malum in mundo}, ma il Battista, parlando del peccato, si riferiva a qualcosa capace di far male al mondo, il peccato irredimibile, il malum mundi. E così, rivolgendosi ai ragazzi li aveva esortati a cercare il male più grosso, il peccato alla base di tutti i peccati. Poi, quando i pareri si stavano esaurendo, un ragazzo aveva detto: “Penso che il male più grosso sia quando si fa del male e non ci si fa più caso.” Allora, con l’entusiasmo che è proprio dei ragazzi, tutti, resisi conto che il loro amico aveva detto una cosa bella e importante, avevano cercato di contribuire a questo concetto valorizzandolo e decorandolo con considerazioni che comprendevano la solidarietà, l’accoglienza, la condivisione e con molti propositi di prestare da quel momento più attenzione ai meno fortunati.
Giovanni Scalera, psicologo e psicoterapeuta
tratto da: Famiglia domani, quaderni CPM, n.4 2011