Negli anni Settanta del secolo scorso lo psichiatra Cooper sentenziava la “morte della famiglia”. E in quest’ ottica oggi i trend statistici di fenomeni quali la riduzione dei matrimoni, l’ aumento delle separazioni e dei divorzi sono assunti dalla maggior parte dei commentatori come gli indicatori della crisi in cui versa la famiglia in Italia.
Eppure se si guardano bene i dati, la lettura è più complessa. Se li collochiamo nel più ampio scenario dell’ Unione europea, scopriamo che in Italia ci si sposa di meno, ma i tassi di divorzialità e di separazione sono molto più bassi del dato medio.
Mettiamo al mondo meno figli, ma la gran parte di essi nascono all’ interno del matrimonio a differenza di quanto accade in Svezia, Francia, Danimarca. Sebbene la generazione di mezzo (18-49 anni) ritenga giusto chiedere il divorzio se il matrimonio è infelice, allo stesso tempo non lo considera affatto un’ istituzione superata.
Certo, gli indicatori mostrano una famiglia in affanno. Tuttavia, gli odierni epigoni di Cooper glissa no sul fatto che le coppie con figli siano la forma familiare più diffusa, le cui funzioni di mediazione sociale diventano ancora più rilevanti.
Le narrazioni mediatiche tendono a restituirci un’ immagine amplificata e distorta della realtà. Utile a legittimare scelte politiche che alimentano una profezia che si autoavvera. Ma, per quanto possa risultare irritante, la famiglia normo costituita resiste e sopravvive a quanti ne avevano previsto la fine.
Perché? E se a mostrare la corda non fosse la famiglia in quanto tale, ma la sua concezione “romantica”?
Il Foglio, 8 ottobre 2015
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